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La fabbrica illuminata

  • Immagine del redattore: Claudia Fofi
    Claudia Fofi
  • 5 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

Ho una figlia ventenne che frequenta il Conservatorio. Con lei abbiamo spesso degli scambi accesi e delle belle discussioni sulla musica. Avendo a mio tempo dato l’esame di storia della musica, qualche cosa ne so, se poi aggiungo la mia curiosità da autodidatta direi che mi sento libera di esprimermi. In fondo oggi il primo che si alza la mattina e che dice “bello quel libro”, se ha qualche migliaio di like può a ragion veduta dirsi un critico letterario, dunque io pure, mi ergo.

Si parlava, con lei, dei danni dello Stockhausen. Per lei quella non è musica, è altro. Il fatto che da un certo punto in avanti si sia rinunciato a creare musica continua a danneggiare i compositori, li fa sentire inutili: se escono dal solco tracciato dalla dodecafonia vengono considerati dei giovanniallevi, se non lo fanno, non se li fila nessuno. Che aveva fatto dunque, Stockhausen, di così grave? A parte giocare con i carillon, si intende. Aveva privilegiato i numeri, le combinazioni aleatorie, aveva rifiutato l’idea delle entità stabili nei flussi sonori. Insomma, aveva fondato un’avanguardia concettuale. Con lui siamo oltre l’atonalità, siamo nell’angoscia esistenziale della dodecafonia. La distanza tra questo tipo di compositori e il pubblico è abissale e io ci vedo la parabola della distanza tra le sinistre e la gente. Prendiamo un Luigi Nono. Lui, come altri, era un militante marxista, veniva da una famiglia colta, aveva avuto un nonno pittore e tutto il resto. Era un sostenitore della lotta di classe e per lui la musica doveva servire a creare quell’egemonia culturale di cui parlava Gramsci: la musica doveva non solo accendere consapevolezze ma spingere alla rivoluzione, diciamo. Nono a un certo punto compone “La fabbrica illuminata”, una musica dedicata agli operai dell’Italsider di Genova-Cornigliano. Nastro magnetico e voce, rielaborazioni e interpolazioni di rumori di fabbrica e di manifestazioni che vagano nell’instabilità dell’insieme, dando un senso generale di disturbo. Musica solo spiegabile, non certo fruibile (non ho detto godibile). Nono voleva mostrare agli operai tutta la sua vicinanza, voleva istigarli alla rivoluzione, forse, ma il risultato che ottiene è di farli fuggire. Hanno iniziato a fuggire lontanissimi dalle egemonie culturali che volevano indottrinarli, fino a trovare rifugio nelle televisioni di Berlusconi. È andata così, non c’è dubbio. Mia figlia appunto diceva: questi non erano musicisti, erano politici, erano performer, con la musica questa roba non c’entra niente! E allora le ho fatto vedere un frammento da un film con Alberto Sordi, “Dove vai in vacanza?” del 1978. Il povero cittadino normale, non appartenente alle élite rivoluzionarie dell’egemonia culturale, non capisce che “il tacet è in partitura”, nel celebre 4’33 di John Cage. Abbiamo riso. La scena è patetica, dopo il silenzio di Cage c’è uno scrosciare di applausi molto intelligenti e poi il soprano attacca con alcune urla scomposte, sulle quali si incastrano lamentosi cori maschili, comicissimi. Tutto nella serietà totale del pubblico e lo straniamento di Sordi e della moglie, che piomba nel sonno dei giusti. Dopo il concerto Sordi parla con il figlio al telefono. Il figlio che vuole educare i suoi genitori a una vita acculturata. Tu madre è quasi svenuta, gli dice. Un po’ per la fame, un po’ per la musica che suonavano, anzi per la musica che non suonavano. Dei ruoli di Sordi si è molto parlato male (ve lo meritate Sordi, chi se lo ricorda Nanni Moretti?), perché incarnava il peggio dell’italiano etc. etc. Invece a questo punto della storia dobbiamo dare atto non solo a Sordi, ma a chiunque capisca che gli operai dell’Italsider avrebbero milioni di volte preferito una Traviata, o Celentano. E avevano ragione loro. Purtroppo e per fortuna, dipende dai punti di vista.



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