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Alan Watts e i kimoni

  • Immagine del redattore: Claudia Fofi
    Claudia Fofi
  • 20 lug
  • Tempo di lettura: 2 min

I miei riferimenti attuali sono quasi tutti degli anni '50 e '60 del Novecento, per questo mi sento spaesata nel cercare di inserirmi nel dibattito letterario contemporaneo, soprattutto italiano.


E poi da rileggere c'è sempre Kafka, ne parlavo ieri: se dobbiamo avere dei maestri, che siano inarrivabili.


Uno di quelli che mi incuriosiscono davvero, per la sua mente divergente e spalancata è Alan Watts, conosciuto per gli esperimenti con l'acido lisergico, che usava e consigliava per ampliare la coscienza e fare grandi salti quantici. (Alan usava dire che il segreto della vita è essere completamente coinvolti in quello che stiamo facendo qui e ora e invece che chiamare questo "lavoro", realizzare che è un gioco).


Da poco ho iniziato a leggere "Il libro sui tabù che ci vietano la conoscenza di ciò che veramente siamo". Una copia originale del 1978, anno in cui fu tradotto e stampato in Italia da Astrolabio. La copia gira per casa mia da parecchi anni e adesso, in piena guerra mondiale, con questi umani presi da una vertigine guerresca libidinosa e sconvolgente, ecco che mi ha chiamato ad aprirlo. Watts usa la parola tabù per evocare qualche cosa di molto profondo, che non è di certo il sesso, secondo lui ampiamente sdoganato (già nel 1966 in California), ma la vera rimozione di chi veramente siamo, ovvero della nostra natura divina.


Il tabù sulla nostra natura divina, che ci connetterebbe all'intero universo, è il più complesso da scalfire, perché farlo emergere renderebbe obsoleta la guerra, la fame di potere, la brama delle cose, le gerarchie di ogni tipo e assurda la paura della morte.


In questo video (per intenditori), Alan Watts riesce a filosofeggiare sull'abito maschile, il classico completo da business man: scomodo, stretto, rigido, militaresco. Da preferire assolutamente, secondo lui, un kimono (che ha delle grandi tasche in cui infilare la pipa, le sigarette, e anche gli spiccioli), oppure una antica veste greca chiamata chlamys, in pratica un vestito da prete, bianco, di lino, comodissimo. A chi gli obiettava che andare in giro con questi abiti molto confortevoli potrebbe essere un problema, se devi correre per non perdere l'autobus, lui rispondeva che allora la cosa migliore è indossare un sarong filippino, in assoluto il più comodo e non castrante abito che un business man potrebbe sfoggiare a un incontro di lavoro.



Vedete, io mi devo divertire con quello che c'è, ma quello che c'è è umorismo di bassissima lega e guerre per niente comiche. E poi ci sono le notizie che ci danno in pasto da sbranare e per sbranarci tra noi e io mi rifiuto. Così mi rivolgo a un'epoca post bellica antica, dove i cattivi c'erano lo stesso ma c'era anche gente che era capace di "immaginare" il mondo come un luogo dove i generali se ne vanno in giro vestiti da monaci. Queste sono le cose che mi mancano, le persone che non ho mai incontrato le cui menti erano capaci di giocare a "tutto".



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